L’ala bianca del Gran Sasso
Divinità di Pietra. Magnete che attira i nostri cuori, li tira e li strattona, con silenziosi codici tiranneggia e registra i fili di fragili esistenze.
di Raffaella De Nicola
Per lui era acqua e neve, concavità profonde, freddo, ghiaccio, monte orrido, inespugnabile e asprissimo quando ascese la vetta, già scalata dai locali cacciatori di camosci, dopo 5 ore e un quarto di salita. E’ un agosto del 1573 e Francesco De Marchi così l’ha descritta, lui che era abituato ai fasti della corte di Margherita d’Austria ma guardava, e ne era soggiogato, quest’altra Maestà, divinità di pietra protesa verso l’indicibile, che con silenziosi codici tiranneggia, e registra, fili di fragili esistenze.
Parla, il Gran Sasso, con le voci di una realtà agro pastorale fortemente contratta, di insediamenti antichi se proprio alle sue pendici, ancora prima che la città dell’Aquila nascesse, a 1600 metri i monaci cistercensi di Santa Maria del Monte innestarono una nuova ideologia. La grancia e i mandroni con mura a secco, la bonifica operata dai religiosi “insegnaronono ai pastori e ai contadini abbrutiti da una sorda ed inutile fedualità” nuove modalità aggregative. Siamo a cavallo dell’XII e XIII secolo, il lavoro dei pastori e la ricerca del silenzio di San Franco e di altri eremiti, che nelle pieghe di speroni calcarei sceglieranno di asciugare il corpo, e i pensieri, alla ricerca dell’Assoluto.
Parla il Gran Sasso di antico e moderno, i rumori assoluti della montagna e quelli della funivia voluta da Adelchi Serena nel 1934, gli spari dell’Operazione Quercia, i tedeschi che atterrano, la prigione costretta ad aprire le sbarre pietrose, Mussolini liberato, il perforamento del traforo più lungo d’Europa nel 1984, il Corno Grande che abbaglia la prima volta che ci passiamo sotto, il linguaggio arcaico dei pastori e quello che, nell’Osservatorio Astronomico più alto d’Europa, cerca le stelle, le chiama, le tocca, le conta.
Poi un papa che qui torna e ritorna, il silenzio del freddo, le preghiere alle nuvole, il fluido religioso che scorre accanto ai sistemi di ricerca sotto le viscere della montagna, il cielo che parla alla terra, i santi e i neutrini, l’infinito e l’atomo, il pastore e il papa, gli scienziati e le pecore, il formaggio e la materia. Scontri titanici fra spirito e scienza, ordinario e straordinario, sotto lo sguardo distaccato del Gran Sasso, icona e archetipo di una comunità, tenuto a vista da noi aquilani come una divinità di pietra che tende le dinamiche di un microcosmo.
Tutto questo penso mentre il vecchio proiettore cicaleggia accanto a mio padre stanco e anziano ora, ma non lì, in quelle immagini di Montecristo, io sdentata che cammino accanto a lui dondolando con la slitta che tiro, le zaffate di arancia che ancora mi arrivano; è domenica, i cugini sulla neve, le risate, pane e frittata, i piedi che immancabilmente si bagnano e noi che ruzzichiamo.
Il Gran Sasso come una muraglia magica, un parco di divertimento e poi sotto i portici, sì è rosso domani andiamo a sciare, fino a quando si è tinto di nero, ragazzi incrociati il giorno prima, che avevi abbracciato, richiamati da quel Minotauro che ha lacerato vite sotto le sue unghie uncinate, o che invece ha, straordinariamente, restituito, gli elicotteri giravano e giravano, custoditi dentro l’utero della montagna, salvi, mentre la cittadinanza intera pregava questo dio pagano, questo Minotauro affamato, affinchè risparmiasse vite e non chiedesse altri, insopportabili, tributi.
Magnete che attira i nostri cuori, li tira e li strattona, con silenziosi codici tiranneggia e registra i fili di fragili esistenze, la solitudine che chiama la solitudine lì, proprio lì, dove è possibile posare il nostro stupore, lì dove la terra parla al cielo in giorni e notti infinite e l’uomo è piccolo di fronte questa potenza che come un bisturi incide i sogni e i deliri che l’uomo consegna, da sempre, alle sue bianche ali e al suo profondo, imperscrutabile, mistero.