La Luna di Peppe
Una storia tutta aquilana.
di Raffaella De Nicola
Attraverso il centro storico appositamente per incontrarlo. E’ mattina presto, intorno palafitte metalliche, suoni di lavori ed elmetti di sicurezza. Non incrocio che operai, alcuni mi salutano gentilmente, altri, trucidi, mi imbarazzano, miscellanea di linguaggi stranieri, pochi italiani e per assurdo, assurdissimo, nessun aquilano nei cantieri. Sono una lama che affonda in un ambiente freddo e nostalgico.
Mi sono lasciata dietro le spalle il Koala, vicino la fontana luminosa, adesso sono ragazzina e, fremendo, entro nel tempio antesignano delle moderne discoteche, la sala è in penombra e luci psichedeliche robotizzano i movimenti ridiventati fluidi con i lenti che non vedo l’ora mettano mentre punto, come un segugio, orecchie e coda tese, zampe affondate a terra, il tizio che mi piace tanto e poi, quando mi invita, mi rendo conto è quello sbagliato perché sono pure miope.
Lui, Peppe, il Dj, è lì, nella sala, anima e attraversa gli anni 80 nei pub, la birreria in via delle Grazie, discoteche e club a piazzetta IX Martiri con i gemelli Di Paolo, il Guru, carismatico, cordiale, un’intera famiglia spazzata nel giro di qualche mese poco tempo fa, indimenticabili personaggi che arieggiavano i battenti di una tranquilla provincia con sonorità metropolitane, viaggi per noi, onirici, che bucavano le frontiere del suono.
Il giovedì aquilano nasce proprio lì, al Koala, alla fine degli anni ’70. E’ una serata dell’ISEF ad alzare il sipario sul periodo d’oro degli universitari, un fluido perenne e montante che ogni settimana sarà dedicato, inizialmente, a facoltà diverse, ascoltando le novità anticipate nelle discoteche di tendenza, Roma e Rimini, e talmente penetrante da divenire costume in questa città che cambia, è cambiata, non nell’effervescenza della ritualità che ogni giovedì sera allaga, da tutto l’Abruzzo, un centro storico vestito da giovani.
Vedo ancora, nei miei flash back, attraversare il Corso stretto, entrare nel negozio di dischi, La Luna è aperta lì sin dagli anni ’80, e nella consolle con stereo i ragazzi mixare e scaraventare nuovi suoni, come in un laboratorio, fra la muraglia bianca del Gran Sasso e la grande tradizione di musica classica della nostra città che penetra ed espande il respiro delle note. Poi la conversione all’oggettistica e cartoleria, con il vinile soppiantato dai CD, l’apertura del grande negozio, sempre sul corso, io che sono costretta da una figlia caparbia ad “andare alla Luna”, metodicamente, è il 2008, i ragazzini si danno appuntamento davanti la sua galleria, e lo ritrovo lì, dietro il bancone, a sparare alle ragazze, fra cui mia figlia, i famosi buchi alle orecchie.
Attraversa generazioni, Peppe, ancorato ai ragazzi che diventeranno adulti, La Luna tenuta a tutti costi aperta sin dal 2009, siamo già a disastro compiuto, lui che viaggia ostinatamente con moglie e figli, parte alle 6.30, senza base e casa, ogni giorno, per riaprire subito un negozio improvvisato a via Strinella, l’ansia che morde, poi Sassa e il suo pensiero fisso di tornare in centro da dove è partito, ma non c’è gente, chiudere un cerchio che rimane aperto dal dubbio tiranno, i forse e i ma, di andar via “chissà, era la soluzione migliore, il terremoto mi ha piegato proprio quando stavano rientrando 30 anni di sacrifici” .
E’ la storia di tanti commercianti, questa di Peppe, e nostra, cresciuti sotto La Luna, perciò voglio raccontarla adesso, attraverso lui, in una piazza Duomo fredda e nostalgica, dove alla fine si è temporaneamente appoggiato, il supporto mancato, gli affitti impazziti di proprietari aquilani senza solidarietà(!), i nostri ricordi puliti che partono dal Koala e dai pub, e la domanda cruda come una palla magica che rimbalza impazzita nelle vetrate dei vecchi negozi: perché il Comune non ha favorito subito il rientro, almeno nell’asse centrale, decretando la fine, invece, di attività commerciali ma non il suk di locali serali??
Il retrogusto è amaro, la rabbia non veicola forza sociale, si infrange dentro le carcasse individuali che barricano questo senso di impotenza, la vita sfugge feroce fra le mani senza afferrarla più, le tassazione pressanti, l’oblio e la solitudine fanno il resto.
Qualche aquilano tornato qui per Natale lo passa a salutare, Peppe, qualche turista entra nel suo negozio e chiede scusa, commosso, per quello che avevano pensato di noi, altri ancora chiedono lo sconto. Molti hanno chiuso, altri sono andati via, il periodo tranquillo del Corso stretto si è concluso.
Io faccio un passo indietro, mi metto in disparte e osservo frontalmente “il quinto stato”, il punto di fuoco di Pellizza da Volpedo centrato sulla rabbia che avanza, le camicie arrotolate sui gomiti, la rivendicazione nel passo cadenzato, lo scenario di sacrifici negli sguardi come i nostri e in fondo, lì in fondo, vedo un profilo, la conosco, la riconosco, non è Piazza Malaspina quella sagoma spezzata, ma è un campanile, è un Duomo, è una Piazza grande, i bei palazzi restaurati, vuoti, abitati da un silenzio che sommerge, e si allarga, come lago ovattato, ovunque.